(a cura del Dott. Marco Vitale[1])
Premessa
Il contesto emergenziale in essere, determinatosi a causa del dilagare della pandemia di COVID-19, ha giustificato (e continua a fondare) numerose disposizioni normative che, in conformità (almeno apparente) alle rispettive sfere di competenza legislativa e regolamentare, sono state adottate dallo Stato e dalle Regioni per contenere la diffusione del SARS-CoV-2, coronavirus responsabile dalla malattia.
Ne è seguito un profondo cambiamento delle abitudini di vita e lavorative dei cittadini, cui s’è, altresì, accompagnato, da un lato, il mutamento delle curve della domanda e dell’offerta di determinati prodotti[2] e, dall’altro lato, un cambiamento nelle attività d’impresa (o, quantomeno, in alcune di queste), rispetto alle quali sono stati previsti – non son senza qualche incertezza sia esegetica sia pratico-operativa – la normale prosecuzione, l’esercizio in forma limitata ovvero la temporanea sospensione.
A tale ultimo riguardo (maggiormente d’interesse ai fini della presente trattazione), il legislatore, prima statale e poi locale, ha ritenuto di fare uso dei cc.dd. codici ATECO, impiegati – nello specifico – per individuare le attività produttive di cui rimane comunque consentita la prosecuzione.
Evoluzione della normativa dello Stato e di Regione Lombardia.
Prescindendo in questa sede dalla disamina dei criteri di risoluzione delle antinomie (trattandosi di un problema teorico-pratico da vagliarsi in relazione al singolo caso di specie), si ripercorre, dunque, brevemente il susseguirsi delle diverse disposizioni adottate dal Governo e dal Presidente di Regione Lombardia[3].
La prima importante misura di contrasto al coronavirus SARS-CoV-2 è stata adottata a livello nazionale per mezzo del D.L. 23 febbraio 2020, n. 6, oggi pressoché totalmente sostituito dal D.L. 25 marzo 2020, n. 19, nonché dei correlati e attuativi D.P.C.M. 23 e 25 febbraio 2020; in tale prima “fase” è stata prevista, in particolare, la chiusura generalizzata di tutte le attività commerciali, esclusi gli esercizi commerciali per l'acquisto dei beni di prima necessita, e la sospensione delle attività lavorative per le imprese, a esclusione di quelle che erogano servizi essenziali e di pubblica utilità e di quelle che possono essere svolte in modalità domiciliare, limitatamente alle c.d. zone rosse (ovverosia i Comuni lombardi e veneti in cui erano scoppiati i primi focolai dell’epidemia).
È seguita l’adozione del D.P.C.M. 1 marzo 2020 che, sempre in attuazione del predetto decreto legge e in conformità con i precedenti decreti, ha prorogato alcune delle misure già in essere e ne ha introdotte di ulteriori, differenziando la disciplina per alcuni Comuni, Regioni e Province rispetto al resto dell’Italia; il successivo D.P.C.M. 4 marzo 2020 ha, poi, applicato il regime più restrittivo in tutto il territorio della Repubblica.
Dopo ulteriori “aggiustamenti”, il D.P.C.M. 11 marzo 2020 ha, infine, previsto la sospensione di tutte le attività commerciali e produttive eccezion fatta per quelle previste nell’Allegato 1, da ultimo sostituito ad opera del D.P.C.M. 25 marzo 2020, attualmente dovendosi fare riferimento all’Allegato 1 di tale ultimo provvedimento; s’è, in tale frangente, fatto riferimento per la prima volta ai cc.dd. codici ATECO.
Nessuna disposizione limitativa o inibitoria è stata, per converso, adottata in subiecta materia dal D.L. 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. Cura Italia), dedicato –più che altro– al rafforzamento urgente del servizio sanitario nazionale e alla predisposizione di misure assistenziali o, comunque, di solidarietà in favore di individui, famiglie e imprese.
Per quanto d’interesse, giova, inoltre, rammentare le ordinanze del Presidente di Regione Lombardia del 22 e 23 marzo 2020, nn. 517 e 519, nonché di quelle del 4 e del 6 aprile 2020, nn. 521 e 522 che, dettando una disciplina parzialmente derogatoria ai D.P.C.M. 11 e 22 marzo 2020 e al D.M. 25 marzo 2020 (espressamente richiamati anche quoad substantiam), hanno previsto ulteriori e diverse limitazioni; anche l’ultimo dei provvedimenti testé citati ha fatto esplicito riferimento.
Il riferimento ai codici ATECO e la prevalenza dell’attività tra regole statali e regionali.
Sic rebus stantibus, si pone un preliminare importante problema interpretativo, ovverosia quale regula iuris (nazionale ovvero locale) prevalga in caso di antinomia.
In via tendenziale appare corretto affermare che, in tali ipotesi, debba applicarsi la disciplina territoriale (in specie, regionale) anche in deroga rispetto a quella statale; depongono in questo senso numerosi argomenti di carattere costituzionale e, soprattutto, logico-normativo. Infatti, da un lato, afferendo alla tutela del salute, tali regole sono lato sensu riconducibili nell’alveo della potestà normativa concorrente (art. 117, co. 3 e 6, Cost.); dall’altro lato, poi, trattasi di normazione c.d. emergenziale, spesso avente la propria base giuridica in disposizioni di legge statali (artt. 32, L. 833/1978, 117, co. 1, D.Lgs. 112/1998) che espressamente consentono alle Regioni medesime di adottare «provvedimenti d'urgenza» in ragione della dimensione di quest’ultima.
Occorre, peraltro, effettuare un’analisi caso per caso: spesso, infatti, le antinomie tra norme equiordinate generate dal principio di competenza sono tali solo in apparenza, potendo essere disinnescate mediante una corretta interpretazione del testo di legge; altre volte, invece, può accadere che una cattiva scrittura della norma più severa prevalente (dovuta o meno alla premura di intervenire) contrasti con precetti e principi sovraordinati e necessiti di in una esegesi adeguatrice, diversamente dovendosene predicare l’invalidità.
Alla luce della superiore normativa risulta, inoltre, evidente che il riferimento ai codici ATECO va inteso in senso non già formale, bensì sostanziale, consentendo l’individuazione delle deroghe alla regola generale della sospensione; in altre parole, l’eccezione delimita, ratione personae, l’applicazione del precetto e, per fare ciò, si affida a un criterio che guarda all’«attività», di cui il codice ATECO costituisce lo “specchio”.
Tale affermazione trova piena rispondenza nelle norme sopra menzionate e, in particolare, negli artt. 1 D.P.C.M. 22 marzo 2020, 1 D.M. 25 marzo 2020, aventi il medesimo tenore, («sono sospese tutte le attività produttive industriali e commerciali, ad eccezione di quelle indicate nell’allegato 1»), nonché, più in generale, nelle ordinanze del Presidente di Regione Lombardia del 4 e 6 aprile 2020, nn. 521 e 522, le cui principali disposizioni fanno tutte riferimento alle «attività» (cfr. artt. 1.2, 1.3, 1.4. ord. 521/2020, 1 ord. 522/2020).
In proposito, problematica e non risolta è l’ipotesi in cui un’impresa eserciti plurime attività (magari all’interno dello stesso impianto o della medesima sede) e solo per alcune di queste sia consentita la prosecuzione; tale nodo può, peraltro, essere districato e possono trovarsi accettabili soluzioni (anche e soprattutto nel senso della possibilità di continuare lo svolgimento dell’attività) che, nondimeno, abbisognano di uno studio case by case, incentrato sulle peculiarità della vicenda, sull’oggetto sociale dell’attività d’impresa e –soprattutto– adottando le necessarie cautele che l’incertezza giuridica e la mancanza di armonizzazione di tale sistema multilivello pongono.
Conclusioni.
La superiore trattazione ha cercato di mettere in evidenza, in ultima analisi, la complessità dell’attuale contesto normativo emergenziale, statale e regionale, spesso foriero di dubbi che solo una puntuale disamina casistica può eventualmente dissipare.
Oltre alla presenza di plurime “fonti” da tenere in considerazione, le prescrizioni ivi contenute sono affatto eterogenee e dalla formulazione per certi versi infelice: eccettuate le disposizioni in cui il significato delle parole non si presta ad equivoci, le forme verbali che nel significato normativo esprimono comandi («sono sospese», «sono vietate», «non è consentito», «deve» o «devono») si accompagnano, spesso, ad eccezioni, ovvero si fa ricorso alla tecnica della doppia negazione oppure sono utilizzate impropriamente per esprimere raccomandazioni non precettive (che pure, peraltro, andrebbero rispettate per motivi etico-sociali); ne deriva una sostanziale imprecisione (o, se si preferisce, vaghezza) delle norme.
Nel dubbio, perciò, è auspicabile astenersi dal prendere decisioni basate sull’altrui esperienza, risultando maggiormente opportuno investire tempo e risorse nell’approfondimento della propria situazione, personale e d’impresa, trattandosi di una scelta economicamente più conveniente, essendo il costo transattivo dell’informazione potenzialmente dimolto minore rispetto alle conseguenze pregiudizievoli che potrebbero derivare da una incauta violazione delle misure.
[1] Abilitato all’esercizio della professione forense previo positivo superamento dell’Esame di Stato nell’anno 2018, non practicing, già laureato in giurisprudenza con pieni voti assoluti e summa cum laude conferita all’unanimità della Commissione di laurea presso l’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano, attualmente collaboratore of counsel presso lo Studio Legale Associato Santamaria, specializzato – tra l’altro – in analisi economica del diritto e profili giuridici dell’economia.
[2] In proposito, è interessante notare non soltanto la positiva e inevitabile flessione positiva della domanda di beni primari, ma anche di altri, ritenuti finora secondari o, comunque, non indispensabili. Il riferimento è, ad esempio, ai prodotti igienici della persona (come le soluzioni disinfettanti tipo “Amuchina” e succedanee) nonché, soprattutto, alle cc.dd. mascherine protettive, antivirus o chirurgiche. Queste ultime, peraltro, possono oggi considerarsi veri e propri beni cc.dd. meritori (dall’inglese merit goods), in quanto riconosciuti come tali non soltanto dall’opinione pubblica ma anche dal legislatore, che, nominandoli esplicitamente, ne incentiva il consumo in considerazione della loro funzionalità per la salute individuale e collettiva; nella recentissima ordinanza del Presidente di Regione Lombardia del 4.4.2020, n. 521, è, ad esempio, stabilito che «ogniqualvolta ci si rechi fuori dall’abitazione, vanno adottare tutte le misure precauzionali consentite e adeguate a proteggere sé stesso e gli altri dal contagio, utilizzando la mascherina o, in subordine, qualunque altro indumento a copertura di naso e bocca, contestualmente ad una puntuale disinfezione delle mani».
[3] Per quanto d’interesse, non appare utile interrogarsi circa la natura dei singoli atti. In proposito, è sufficiente rammentare che i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (D.P.C.M.) così come i Decreti Ministeriali (D.M.) hanno natura regolamentare ai sensi dell’art. 17 L. 400/1988. Discussa è, invece, la natura giuridica delle ordinanze presidenziali ex artt. 32 L. 833/1978, 117 D.Lgs. 112/1998): per alcuni, si tratterebbe di atti amministrativi tout court, altri ritengono –per converso– che sarebbero atti normativi (di natura non regolamentare, ma equipollenti alle fonti di rango secondario) e non manchi chi afferma consistano in atti di natura ibrida (o amministrativi sui generis), contenendo prescrizioni di carattere normativo ma nondimeno essendo direttamente scrutinabili in punto di legittimità (per quanto concerne, ad esempio, la sussistenza dei presupposti).
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