Avvocato, quale presidente del Centro Studi Liberi nell’Agorà, come vede il futuro dei nostri giovani nell’economia brianzola?
Oggi purtroppo, l’ideologia del MANAGEMENT allontana e distoglie molti giovani delle imprese italiane. Ma la Brianza resiste. Da tempo, infatti, ha preso piede l’ideologia del management costruita intorno a tre dogmi: incentivo, leadership, merito. Questo ha determinato un veloce cambiamento culturale, anche dei paesi Cattolici, che via via ha abbandonato le leggi della vita. I nostri giovani sono stati così plagiati da questa falsa idea del management che è un’ideologia e non una mera tecnica, per cui hanno abbandonato i vecchi valori nella più totale indifferenza generale. Le multinazionali, le società finanziare e le grandi imprese votate al profitto a tutti i costi assorbono i nostri migliori giovani, allontanandoli dal mondo più circoscritto del loro territorio e financo dall’Italia. Tuttavia, la Brianza resiste ancora a questi forti richiami e lo può fare proprio grazie ad un sistema di cultura molto radicato, fondato su valori legati alla vita e alle persone, pur senza negare l’importanza dei valori e delle virtù economiche.
A cosa è dovuta secondo lei questa resistenza e questa capacità?
Al fatto che la cultura brianzola, legata molto all’operosità, all’ingegno, all’intraprendenza è stata sempre legata al concetto di famiglia e ai valori di etica e consapevolezza. Genitori e figli, anche parenti stretti sono stati il primo nucleo delle aziende brianzole e questa cultura è oggi ancora radicata. Fortunatamente.
Perché ritiene che ciò sia una fortuna?
Come dicevo, la Brianza, contrariamente ad altre aree di sviluppo commerciale, riesce ancora a mantenere la propria identità, fatta di legami col territorio, di valori legati alle persone, ai rapporti anche a ispirazioni cristiane, con forte connotazione di etica e di condivisione. In un mondo globalizzato, questi sono ormai valori rari da difendere assolutamente.
Quindi questa capacità dei piccoli artigiani lei la lega a questi valori?
Certamente. Ne è prova il fatto che molte di queste realtà sono di tipo familiare, come avviene anche in molte nostre grandi aziende. Nelle piccole realtà aziendali sono questi rapporti umani e personali molto forti; è ancora piuttosto lontana la cultura industriale calvinista o il così detto umanesimo protestante che premia solo il merito e abbandona tutto il resto.
Ma come possono continuare a resistere queste realtà?
Restando legate all’antica etica delle virtù su cui i padri e i nonni hanno fondato questa realtà economica. La grande impresa che spazza via le piccole e che impone la regola esclusiva del profitto, dove vale solo chi è asservito al profitto è il paradigma che media e cultura globalizzata vorrebbero che venisse seguito se si vuole un’economia efficace e redditizia. Ma con quale costo umano?
Che cosa possono fare le istituzioni per aiutare a mantenere questo modello delle nostre imprese?
Innanzitutto ispirarsi a questi valori, a non rinunciarvi in virtù di un falso progresso. Enfatizzare la globalizzazione come modello necessario è sbagliato. Vanno supportate le nostre imprese affinché restino nel nostro territorio, agevolando gli insediamenti, gli ampliamenti, gli adeguamenti delle vecchie strutture, incrementando i servizi, le infrastrutture, ascoltando di più le organizzazioni di queste imprese (come Assolombarda, Confcommercio, Confartigianato, Unione Artigiani, ConfimiIndustria). Inoltre, lo Stato deve incentivare le politiche di cultura del Made in Italy, anche intervenendo sulla scuola, come è stato recentemente proposto, sostenendo altresì la formazione di quelle figure lavorative e professionali che mancano e di cui hanno necessità le nostre aziende.
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