La rilevanza penale degli atti amministrativi con riferimento al sindacato del giudice sulla legittimità del provvedimento e sulle sue conseguenze in materia edilizia nonché in caso di inosservanza delle misure anti COVID-19

(a cura del Dott. Marco Vitale e del Dott. Claudio Romani)

Premessa

Un tema sempre attuale e vieppiù di interesse alla luce dell’introduzione di misure amministrative di contenimento alla dilagante pandemia di Covid-19 riguarda il rapporto tra l’atto amministrativo, generalmente inteso, e il diritto penale, laddove il primo integra la fattispecie di reato fino a diventarne vero e proprio elemento costitutivo.

Seppur da una simile premessa parrebbe che l’attività amministrativa rilevi, ai fini penali, in maniera univoca, dall’analisi delle singole ipotesi in cui tali due rami del diritto sono in contatto emerge che l’esistenza e la legittimità del provvedimento hanno, a seconda dei casi, una diversa funzione nella fattispecie oggettiva dell’illecito penale; in altri termini, la maggior parte dei reati legati ad un presupposto genericamente amministrativo, concretamente rimandano a fasi differenti della macchina amministrativa.

Nel tentativo di differenziare le ipotesi in cui l’azione amministrativa rileva in ambito penale, è possibile individuare almeno tre diverse fattispecie:

  • atto amministrativo inteso come condotta sostanziandosi l’illecito nell’esercizio dell’attività amministrativa (si pensi ai reati di corruzione propria ex art. 319 c.p. o di abuso d’ufficio ex art. 323 c.p.);
  • atto amministrativo rilevante come oggetto materiale su cui ricade il reato (g. falso in atto pubblico ex art. 483 c.p.);
  • l’atto amministrativo quale presupposto del reato.

Tale ultima “famiglia”, che maggiormente interessa ai fini della presente disamina, comprende al proprio interno illeciti penali affatto eterogenei. Se si guarda al caso dellart. 44 D.P.R. 380/2001 (c.d. Testo Unico dell’Edilizia), il presupposto del reato è la mancanza/difformità del titolo abilitativo rilasciato dalla P.A. (in particolare del permesso di costruire ovvero della c.d. super s.c.i.a.); in altri casi, invece, l’atto amministrativo costituisce il presupposto positivo dell’incriminazione, di talché si hanno le cc.dd. norme penali in bianco, di cui a titolo esemplificativo si indica l’art. 650 c.p. consistente nell’inosservanza di un provvedimento dell’Autorità.

Da ciò emerge che, talvolta, il provvedimento amministrativo integra direttamente la norma penale, ragion per cui, al fine di individuare le condotte assoggettabili a pena, risulta necessario rinviare ad una fonte esterna ossia al provvedimento amministrativo.

Stante quanto fin qui detto, appurato –quindi– che settore penale e ambito amministrativo possono integrarsi tra di loro arrivando a specificare fattispecie penali che, in assenza delle opportune integrazioni offerte dagli atti amministrativi, rimarrebbero del tutto prive di significato, è necessario effettuare un passo ulteriore al fine di comprendere correttamente come tali due rami del diritto si rapportino tra di loro.

In particolare, il riferimento è al sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo.

 

La c.d. disapplicazione in malam partem nell’ambito dei reati edilizi

Anzitutto, corre esaminare il problema di lunga data concernente la configurabilità di reati edilizi in caso di intervento realizzato dietro permesso di costruire invalido.

Orbene, brevemente, l’art. 44, co. 1, lett. b) D.P.R. 380/2001 (c.d. Testo Unico dell’Edilizia) punisce l’esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso di costruire ma non contempla (almeno espressamente) l’ipotesi in cui un’opera sia stata realizzata in base a un titulus contra legem.

In proposito, la giurisprudenza più recente ritiene che «al giudice penale non è affidato[…] alcun c.d. sindacato sull'atto amministrativo (concessione edilizia/permesso di costruire), ma nell'esercizio della potestà penale egli è tenuto ad accertare la conformità tra ipotesi di fatto (opera eseguenda o eseguita) e fattispecie legale, in vista dell'interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela, nella quale gli elementi di natura extrapenale convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo” (Cass. pen., Sez. III, sent. 7.6.2018, n. 49687); ciò in quanto tale potere non è volto ad incidere sulla sfera dei poteri riservati alla pubblica amministrazione, e quindi ad esercitare un'indebita ingerenza, ma trova fondamento e giustificazione in una esplicita previsione normativa, la quale postula la potestà del giudice di procedere ad un'identificazione in concreto della fattispecie sanzionata» (Cass. pen., Sezioni Unite, sent. 12.11.1993, n. 11635, imp. Borgia).

In questi casi, allora, «non viene in rilievo il potere dell'autorità giudiziaria di disapplicare un atto amministrativo illegittimo, ma il potere di accertamento giurisdizionale, inteso quale diretta espressione del principio di legalità come declinato dall'art. 101 Cost., comma 2, potere che compete pieno iure al giudice penale - il quale "risolve ogni questione da cui dipende la decisione, salvo che sia diversamente stabilito" (art. 2 c.p.p., comma 1) - e dunque detto potere deve essere esercitato anche in ordine ad un provvedimento (amministrativo) quando l'atto costituisce presupposto o elemento costitutivo di un reato o, comunque, incide su di esso» (Cass. pen., Sez. III, sent. 4.12.2017, n. 38856, imp Schneider).

Alla stregua di tale orientamento, dunque, la normativa edilizia e urbanistica (dunque i regolamenti locali e le norme tecniche di attuazione) dovrebbero costituire il parametro di riferimento utile ai fini dell’accertamento della sussistenza o meno della penale responsabilità dell’agente; peraltro, in caso di illegittimità non macroscopiche, ben si potrebbe dubitare (e infatti s’è a più riprese dubitato) della sussistenza anche solo della colpa in capo al progettista, al costruttore e ancor più al mero proprietario, che fa (e deve legittimamente poter fare) affidamento sul proprio titolo.

 

La c.d. disapplicazione in bonam partem dei provvedimenti illegittimi con particolare riferimento ai D.P.C.M. e alle ordinanze regionali contenenti misure di contrasto alla pandemia di Covid-19

Un’altra fattispecie di enorme interesse teorico-pratico, specialmente nel perdurante periodo di emergenza sanitaria, è quella descritta dall’art, 650 c.p. che, come è noto, sanziona con l’ammenda e con l’arresto –tra l’altro– «chi non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica o d’ordine pubblico e di igiene».

A differenza dell’ipotesi sopra esaminata, il reato in questione pone un analogo problema di “disapplicazione” che, tuttavia, opera in bonam partem; detto altrimenti, mentre in materia edilizia la rilettura della norma incriminatrice alla luce del bene giuridico protetto ha condotto gli interpreti a sussumervi l’ipotesi di invalidità del provvedimento (quasi mercé un’interpretazione estensiva del caso di «assenza» del titulus), l’art. 650 c.p. è sempre stato interpretato nel senso che il giudice deve poter sindacare la legittimità del provvedimento al fine di stabilire se la sua inosservanza integra o meno tale contravvenzione.

Del resto, com’è evidente, la condotta violativa rileva sol a fronte di un provvedimento, ovverosia di un atto autoritativo o precettivo proveniente da un’Amministrazione, che però sia «legalmente» dato dall’Autorità.

Guardando alla c.d. legislazione emergenziale, inizialmente, il legislatore nazionale ha ritenuto di munire espressamente le misure di contenimento per prevenire il dilagare del coronavirus Sars-Cov-2 della sanzione penale, proprio facendo riferimento alla contravvenzione in esame.

Segnatamente, l’art. 4, co. 2, D.P.C.M. 8 marzo 2020 ha previsto che «salvo che il fatto costituisca più grave reato, il mancato rispetto degli obblighi di cui al presente decreto è punito ai sensi dell'articolo 650 del codice penale, come previsto dall'art. 3, comma 4, del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6»; tale ultima norma, peraltro, è stata, da ultimo abrogata ad opera del D.L. 25 marzo 2020, n. 19 che, anzi, ha testualmente previsto che «salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento […] é punito con  la  sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall'articolo 650 del codice penale» (art. 4, co. 1).

Dal punto di vista strettamente giuridico, possono, quindi, trarsi le seguenti implicazioni.

In disparte l’applicabilità o meno dell’art. 2 c.p. (rilevante sol se si considerano le disposizioni citate innovative oppure, come in effetti sembrano, meramente ricognitive), il principio di specialità amministrativa –cristallizzato dall’art. 9 L. 689/1981– unitamente alla littera legis dell’art. 4, co. 1, D.L. 19/2020 non lascia dubbi in ordine alla sopravvenuta non punibilità delle violazioni delle misure di contenimento tramite la sanzione penale, con conseguente necessità di ritenere penalmente irrilevanti anche quelle commesse prima del 25 marzo 2020.

In quest’ottica, peraltro, il problema della disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo in sede penale ha lasciato il posto al sindacato di legittimità del provvedimento amministrativo afflittivo nella sede sua propria, ovverosia dinanzi al giudice ordinario, secondo quanto previsto dalla L. 689/1981 cit.

Alla luce delle crescenti censure di illegittimità (anche di rilievo costituzionale) dei D.P.C.M. (con particolare riferimento alla possibilità di limitare libertà fondamentale tramite strumenti diversi dalla legge ordinaria) si tratterà, quindi, di capire se e in che termini –a prescindere dalla sussistenza o meno del comportamento censurato- la base giuridica delle contestazioni mosse a moltissimi cittadini italiani potrà reggere al sindacato di legittimità che -eccezionalmente– il giudice ordinario è chiamato a compiere esercitando poteri costitutivi sull’atto impugnato.

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